Il telefono è una scatola nera: contiene i nostri segreti, le nostre paure, ci serve per nascondere mentre stiamo mostrando. Questa semplice (ma molto contemporanea) idea è il nodo gordiano del film Perfetti sconosciuti, vincitore del David di Donatello 2016 per la categoria miglior film.

La scena si svolge teatralmente (quasi) in un’unica stanza in cui i protagonisti, quattro amici di vecchissima data, e tre delle loro rispettive consorti, decidono di animare la serata con una sorta di roulette russa del segreto. Tutti gli invitati dovranno leggere ad alta voce, per l’intera durata della cena, qualsiasi messaggio ricevano e rispondere alle chiamate usando il vivavoce.

La provocazione che dà il via al gioco è lanciata da una delle donne del tavolo, psicanalista e coinvolta in un difficile rapporto madre-figlia: dopo venti anni di amicizia (o matrimonio) si può dire di conoscere perfettamente chi abbiamo di fronte? Siamo sicuri che leggendo i messaggi privati del nostro coniuge o del nostro migliore amico non ci troveremo di fronte a verità scomode, imbarazzanti e magari assolutamente insospettabili?

I dialoghi serrati, vicinissimi alle nostre esperienze quotidiane, sono pungenti e a tratti esilaranti, ma il risultato dell’esperimento pare comunque amaro: possono bastare due ore di messaggi e telefonate per convincerci che la persona che credevamo di conoscere (e che amiamo) non è altro che un perfetto sconosciuto.

Forse, sembra suggerire il film, è meglio lasciare che ognuno abbia la sua porzione di segreti e rimanere felicemente ignari: inconsapevoli e soddisfatti di quello che vogliamo (e non vogliamo) sapere di chi amiamo.